Il peso nascosto del perfezionismo

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Il peso nascosto del perfezionismo

 

SONO UNA/UN PERFEZIONISTA?

Certamente sì, anche se ci sto lavorando, risponderei di getto. Poi proseguirei dicendo che non vorrei abusare di questo termine, come invece spesso accade, che forse lo ero tempo fa e che il mio desiderio di perfezione agiva solo in alcuni ambiti e non in altri.

Voi, invece, cosa rispondereste?

Per replicare a questa domanda, onde evitare usi impropri della parola, udibili sovente nel linguaggio comune, risulta necessario innanzitutto comprendere cosa si intenda per perfezionismo.

Il perfezionismo si potrebbe definire come una tendenza psicologica dell’individuo che, in uno o più contesti di vita, ricerca perfezione, chiedendo a sé stessa/o oppure alle altre persone prestazioni ideali, con lo scopo di adempiere a specifici standard.

Possiamo distinguere vari tipi di perfezionismo.

Per esempio, esiste una forma di perfezionismo autodiretto (orientato a sé stessa/o) che si manifesta attraverso la propensione a porsi degli standard personali spesso irraggiungibili. Le esigenze troppo elevate saranno altresì associate all’incapacità di accettare eventuali errori. Il mancato raggiungimento dello specifico obiettivo potrà causare una significativa tristezza/insoddisfazione e/o essere accompagnato da un’autocritica severa e sproporzionata.

Vi è poi un perfezionismo eterodiretto (direzionato per esempio verso partner, familiari, colleghe/i e amiche/i) caratterizzato dalla pretesa che l’Altro raggiunga un adeguamento completo a quelli che sono i propri standard di comportamento. È come se la persona si sentisse detentrice di un manuale d’istruzioni universale, che le permette di discriminare ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, quando in realtà tale manuale risulta definire esclusivamente il proprio modo di vedere/scegliere e non quello degli altri. Se penso sia giusto solo il mio modo di comportarmi, farò fatica a capire qualora l’Altro agisca differentemente. Tale coincidenza fallita porta spesso, nell’ambito delle relazioni interpersonali, a sentimenti quali la rabbia, la tensione e la frustrazione.

Il perfezionismo può essere poi socialmente imposto/prescritto. Si tratta di una propensione a ritenere che l’alterità (rappresentata per esempio dai genitori, dalle/dai colleghe/i, dalle/dagli amiche/i, ma anche dalla società) abbia aspettative sul singolo esageratamente elevate, le quali devono necessariamente essere soddisfatte per ottenere l’approvazione ambita. Qualora tali aspettative risultino disattese, la persona potrà sperimentare una significativa tristezza e, sovente, anche paura del giudizio.

 

La misura con la quale il perfezionismo si esprime e i meccanismi attraverso cui si manifesta determinano quindi se, quanto e come questa tendenza possa costare all’individuo in termini emotivi e anche quanto risulti invalidante nella vita di tutti i giorni.

L’essere perfezionista può comportare infatti un considerevole dispendio energetico e può risultare ingombrante per la persona stessa.

Non stupisce dunque come tale tendenza venga considerata un fattore transdiagnostico, che contribuisce ed è coinvolto nello sviluppo e nel mantenimento di varie manifestazioni psicopatologiche (quali, per esempio, il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, il disturbo d’ansia generalizzato, i disturbi depressivi, i disturbi alimentari e il burnout).

 

PERFEZIONISMO E PERFORMANCE

Come esempio concreto, poniamo il caso che la scrivente di questo articolo sia una perfezionista.

Probabilmente ci verrebbe subito da pensare che il risultato finale, curato da una persona con determinati standard in mente, riesca a rispettare con successo gli stessi. Al di là del fatto che quest’ultimo ipotetico output non è di certo scontato, in quanto non per forza consequenziale a come l’autrice si metta a disposizione di un dato tempo, non tutti potrebbero soffermarsi a immaginare cosa ci sia dietro al lavoro che porta a tale esito.

È proprio questo che risulta importante evidenziare: l’efficacia di quanto si realizza non è descrivibile solo attraverso il risultato ottenuto, ma anche considerando quanto sforzo viene richiesto per concluderlo. Aggiungerei che sarebbe auspicabile dare valore anche a come ci si sente nel frattempo.

Tornando all’esempio, se ogni passo risulta minacciato dall’indecisione e dall’esitazione, potrò sentire la necessità di ricapitolare spesso, controllare e cancellare continuamente le parole dell’elaborato. Per esempio, verranno scritte diverse versioni prima di ottenere quella finale e si andrà a leggere molto materiale, decidendo di approfondire grazie a numerosi spunti.

L’andamento della/del perfezionista, ostaggio della specifica direzione adempiere all’ideale prefissato, sarà quindi lento e faticoso, lontano da come si immagini un comportamento funzionale ed efficace.

A farsi spazio, con diversi gradi d’intensità, troveremo poi diverse atmosfere emotive, variabili a seconda di ciascuna persona, quali ad esempio il senso di colpa, il sentimento d’inadeguatezza (specchio di una sfiducia nelle proprie capacità) e/o l’agitazione e il timore di sbagliare.

L’errore potrà poi essere interpretato come indicatore di fallimento personale, attraverso una modalità di pensiero, spesso presente nella persona perfezionista, catastrofica (immaginazione di scenari catastrofici) e dicotomica, di tipo bianco o nero (es.: invece di pensare “il mio lavoro va bene ma presenta degli aspetti migliorabili”, l’idea, che non prevede sfumature nel mezzo, sarà che tale elaborato risulti completamente da rifare).

In questo esempio, l’ipotetica scrivente produce, seppur con un considerevole investimento di energia, un risultato.

Si può tuttavia verificare, nelle forme più irrigidite di perfezionismo, una propensione a procrastinare. Adoperando il medesimo esempio, si potrà ritenere di aver visionato troppo poco materiale per una stesura ottimale dell’elaborato, rimandando così l’inizio o il completamento dello stesso. In questo caso la dimensione emotiva osservabile potrebbe essere quella della paura, nello specifico di fallire, di non essere abbastanza brave/i o di essere giudicate/i negativamente. Queste ultime situazioni temute verranno quindi evitate temporaneamente (attraverso la procrastinazione/blocco transitorio) o definitivamente (blocco permanente).

Un esempio comune è quello della/o studente perfezionista che non si presenta all’esame, continuando a rimandare in quanto il criterio ambito, ovvero memorizzare e comprendere tutto dello specifico argomento, non risulta mai raggiunto. Essendo di fatto un obbiettivo irraggiungibile, il rischio sarà quello di rimanere imbrigliati nella paura di essere giudicati come incompetenti.

 

IMPARARE A SBAGLIARE

Essere consapevoli delle tendenze sovra-descritte e dell’impatto delle stesse sulla nostra vita è uno dei primi movimenti che possono portare una persona a voler lavorare su questo aspetto, che ciò avvenga all’interno di un percorso terapeutico o meno.

Tale riconoscimento non appare sempre evidente, a maggior ragione trattandosi di una tendenza che viene perlopiù normalizzata, stimolata/incoraggiata e anche idealizzata positivamente, anziché inibita o quantomeno monitorata, dalla cultura di riferimento attuale (con diversi gradi per diversi Paesi e contesti).

Raramente, tuttavia, la richiesta iniziale di un percorso terapeutico riguarda questo aspetto, che viene piuttosto compreso gradualmente nel corso delle sedute, rappresentando spesso una caratteristica d’ostacolo nella vita della persona e, talvolta, un vero e proprio fattore di rischio per l’insorgenza/il mantenimento della manifestazione psicopatologica con la quale la/il paziente si presenta.

Nel lavoro terapeutico verranno man mano proposti spazi di condivisione nei quali provare a contestualizzare le esperienze, attraverso una loro ri-lettura condivisa e una graduale attribuzione di significato personale e relazionale, alla luce della specifica storia di vita dell’individuo.

A seconda della persona, e di come questa è perfezionista, si potranno poi man mano proporre spazi di sperimentazione atti ad ammorbidire la tendenza stessa (come, ad esempio, inserire un piccolissimo errore nella versione definitiva dell’elaborato, rileggere solo una volta lo stesso, consigliare vincoli minimi temporali e diverse altre strategie), nei quali si cerchi di osservare/tollerare vissuti emotivi inediti e probabilmente inizialmente inquietanti (quali, per esempio, l’essere riconoscibile dall’Altro in quanto fallibile) e nei quali ci si possa man mano riconoscere altrimenti (scoprendosi ad esempio capaci di vivere l’errore con maggiore naturalezza/leggerezza/autoironia).

Lo scopo sarà quello di vivere una specifica esperienza in una differente modalità, incontrando uno scenario meno catastrofico di quanto ipotizzato e plausibilmente ottenendo, in meno tempo, un buon esito nonostante l’errore.

Si comprenderà così che concedersi un margine d’imperfezione può rendere la preparazione spesso più funzionale e meno faticosa, sia in termini di dispendio energetico, che emotivi. Imparando ad ascoltare la propria fatica si potrà inoltre capire come equilibrare il tempo del dover fare (prestazionale), con quello dedicato alle attività piacevoli (tempo libero e non superfluo), costruendo, in parallelo e gradualmente, direzioni caratterizzate da obbiettivi maggiormente realistici e sostenibili.

 

Articolo a cura della Dott.ssa Lucrezia Olivier

La dott.ssa Olivier Lucrezia, Psicologa-Psicoterapeuta, si occupa di Psicoterapia ad indirizzo Cognitivo Neuropsicologico, seguendo un approccio ermeneutico fenomenologico, a Milano presso lo Studio Psichiatria Integrata in piazza Gorini 6.

Cristina

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