Neurodivergenza e questioni di diagnosi
Articolo rivisto e modificato in data 18.10.2023 (anche grazie alle critiche ricevute da Roberto Mastropasqua)
NEURODIVERSITÀ E NEURODIVERGENZA
Per neurodiversità si intende un modello di pensiero mirato a promuovere i diritti delle persone considerate neurologicamente divergenti dalla norma neurotipica. Il termine fu coniato nel 1998 da Judy Singer, scienziata di scienze sociali autistica, e si riferisce ad un significato che percorre una costante evoluzione come parte di un processo dialettico di cambiamento. La neurodiversità umana (biodiversità neurologica) è quindi la variabilità tra i sistemi nervosi di ogni essere umano, ovvero l’insieme delle differenti caratteristiche che costituiscono la neurologia di ciascun individuo (sviluppo neurologico tipico incluso).
Invece il termine neurodivergenza include qualsiasi condizione neurologica che diverga dalla norma stabilita dai modelli medico e culturale. Risulta importante sottolineare come tale termine descriva una categoria, con presupposti e valenza sociale e non clinica, di persone discriminate da attività normanti (attività che si appoggiano ad un approccio medicalizzante e patologizzante).
Approfondire anche la conoscenza del modello sociale in contrapposizione a quello medico (che vede la disabilità perlopiù come limitazione fisica/mentale e come deficit rispetto a parametri statistici di normalità) risulta di estrema importanza anche per le stesse persone che si occupano di diagnosi e trattamento.
La differenza tra queste due prospettive, secondo Roberto Mastropasqua (estratto riportato da una sua intervista su Le Nius), autistico e componente del direttivo dell’Associazione Neuropeculiar – Movimento per la biodiversità neurologica – sta nel fatto che:
“se io guardo l’autismo o qualsiasi condizione solo dal punto di vista medico, cercherò solamente delle cure e degli interventi terapeutici o riabilitativi da fare sulla persona, perché il problema sta lì. Agisco solo sulla persona, perché tanto il problema è organico, in qualche maniera. […] Però, se osservo quella condizione dal punto di vista sociale, vedo quello che la società può fare per far sì che quella persona abbia le stesse opportunità di autorealizzazione degli altri”.
Lungi dal mischiare i campi di studio di ciascun professionista, ritengo estremamente utile da psicologa-psicoterapeuta (neurotipica) approfondire le prospettive portate da esponenti di movimenti socio-culturali, in particolare se con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico, per rendere più accurato l’eventuale intervento clinico, tenendo conto sia delle caratteristiche non storiche, sia della storia di vita dell’individuo.
Si dovrà quindi conoscere bene il paradigma medico e i criteri diagnostici, senza tuttavia fermarsi a questo. Sarà infatti importante che l’individuo significhi i propri modi di essere nel Mondo, partendo dal presupposto che tali modalità non sono frutto di un deficit.
Il processo diagnostico spesso rischia, al contrario, di ricorrere ad un linguaggio fatto di parole quali “compromissione”, “problemi” e “deficit”, rimarcando una narrazione di per sé riduttiva e discriminante. I criteri diagnostici, inoltre, hanno presupposti biomedici e risultano formulati entro parametri perlopiù iscritti nel modello medico da specialisti, che si pongono nella posizione di osservatori dell’esperienza altrui – descrizione “dal di fuori”. Quell’esperienza viceversa potrebbe essere descritta ove possibile da chi la esperisce in prima persona – punto di vista “dall’interno” – in modo più preciso ed efficace, in quanto maggiormente condivisibile e riconoscibile da chi vive esperienze simili.
Se è vero ciò, è altrettanto vero che la diagnosi risulta di estrema importanza per una serie di fattori che approfondiamo di seguito.
IDENTIFICAZIONE TARDIVA E STRATEGIE COMPENSATORIE
Lehnhardt e autori (Lehnhardt et al., 2013) documentano “un frequente delay nelle diagnosi di Sindrome di Asperger, che potrebbe essere ascrivibile anche a specifiche strategie compensatorie messe in atto nel tentativo di coprire modalità di comunicazione sociale percepite come atipiche. Queste strategie compensatorie dipendono da una serie di fattori quali i contesti abitati e le esperienze che l’individuo si trova a vivere e possono avere, secondo gli autori, successo entro certi limiti, per poi risultare, in specifiche situazioni/momenti, non più efficaci”.
Tali modalità di adattarsi alle richieste dell’ambiente sociale (richieste stabilite perlopiù da persone con sviluppo tipico) possono portare le persone autistiche a non sentirsi bene e a vivere momenti di fatica emotiva, con manifestazioni psicopatologiche secondarie caratterizzate da diversi gradi di visibilità (per le quali viene richiesto o meno supporto terapeutico).
Gli autori documentano un’alta percentuale di persone autistiche che sviluppano psicopatologie quali la depressione o i disturbi d’ansia. Secondo un ulteriore studio osservazionale (Hofvander et al., 2009) “in pazienti con diagnosi tardiva di Sindrome di Asperger, i disturbi depressivi rappresentano la patologia psichiatrica più frequente”.
Sempre secondo Lehnhardt e autori, qualora poi ci sia una ricerca da parte di questi soggetti di un aiuto sanitario, la manifestazione sintomatologica di tali disturbi secondari può camuffare specifiche caratteristiche, rendendo più complesse sia l’identificazione, che la costruzione di direzioni terapeutiche su misura.
In seguito ad una diagnosi, le difficoltà autentiche sperimentate possono risultare più comprensibili sia da chi le esperisce – “dall’interno”, sia da chi le osserva – “dal di fuori”. Parallelamente ad una maggiore consapevolezza delle personali caratteristiche cambia la narrazione che attuo di me e del Mondo che mi circonda, cambia l’attribuzione di significato con la quale vedo le mie scelte e le aspettative che gli altri hanno in tal senso e si modifica di volta in volta la progettualità che mi immagino (per esempio, alla luce delle proprie caratteristiche, vi potrà essere la costruzione di direzioni lavorative e familiari maggiormente sostenibili e gratificanti).
Ricevere una diagnosi garantisce, oltre a specifici diritti e servizi nel quadro giuridico attuale, la possibilità di prevenire/ridurre sia gli effetti di alcune strategie compensatorie/di adattamento (che l’individuo può mettere in atto per adeguarsi alle richieste dell’ambiente sociale), sia i timori stessi che li generano, e di identificarsi e/o condividere con altre persone, con diagnosi o meno, determinate esperienze.
Nondimeno la diagnosi aiuta, nel caso venga richiesto supporto specialistico, il clinico stesso (il quale dovrà avere, in tale ambito, un’adeguata esperienza e una specifica conoscenza) a individuare una direzione terapeutica, che accompagni nella comprensione della sofferenza e dell’eventuale sintomatologia secondaria emersa.
Genzone, A. (2020). Ripensare l’autismo | la rivoluzione della neurodiversità. https://www.lenius.it/neurodiversita-autismo/ Le Nius;
Hofvander, B., Delorme, R., Chaste, P., Nydén, A., Wentz, E., Ståhlberg, O., et al. (2009). Psychiatric and psychosocial problems in adults with normal-intelligence autism spectrum disorders. BMC Psychiatry, 9: 35;
Lehnhardt, FG., Gawronski, A., Pfeiffer, K., Kockler, H., Schilbach, L., & Vogeley, K. (2013). The Investigation and Differential Diagnosis of Asperger Syndrome in Adults. Deutsches Ärzteblatt International, Dtsch Arztebl Int 2013, 110 (45): 755–63.
Articolo a cura della Dott.ssa Lucrezia Olivier
La dott.ssa Olivier Lucrezia, Psicologa-
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