
Neurodivergenza e questioni di diagnosi
“Non tutto ciò che non è allineato, e dunque “anormale”, deve necessariamente essere inferiore.” Hans Asperger (1938)
Neurodiversità e neurodivergenza
Per neurodiversità si intende un modello di pensiero mirato a promuovere i diritti delle persone neurologicamente divergenti dalla norma neurotipica. Tale termine fu coniato nel 1998 da Judy Singer, scienziata di scienze sociali autistica, e si riferisce ad un significato che percorre una costante evoluzione come parte di un processo dialettico di cambiamento. La neurodiversità umana (biodiversità neurologica) è quindi la variabilità tra i sistemi nervosi di ogni essere umano, ovvero l’insieme delle differenti caratteristiche che costituiscono la neurologia di ciascun individuo (sviluppo neurologico tipico incluso).
Invece, con il termine neurodivergenza, più nello specifico, ci si riferisce a persone che hanno seguito uno sviluppo neurologico differente rispetto alla media (quali ad esempio persone autistiche e ADHD). La neurodivergenza si manifesta in molti modi diversi, da quelli molto lievi, di difficile lettura per la maggior parte delle persone (e spesso anche tardivamente identificati), a quelli più evidenti, comportamenti significativamente diversi da quelli considerati standard.
Approfondire anche la conoscenza del modello sociale in contrapposizione a quello medico (che vede la disabilità perlopiù come limitazione fisica/mentale e come deficit rispetto a parametri statistici di normalità) risulta di estrema importanza anche per le stesse persone che si occupano di diagnosi e trattamento.
La differenza tra queste due prospettive, secondo Roberto Mastropasqua, autistico e componente del direttivo dell’Associazione Neuropeculiar – Movimento per la biodiversità neurologica – sta nel fatto che:
“se io guardo l’autismo o qualsiasi condizione solo dal punto di vista medico, cercherò solamente delle cure e degli interventi terapeutici o riabilitativi da fare sulla persona, perché il problema sta lì. Agisco solo sulla persona, perché tanto il problema è organico, in qualche maniera. […] Però, se osservo quella condizione dal punto di vista sociale, vedo quello che la società può fare per far sì che quella persona abbia le stesse opportunità di autorealizzazione degli altri”.
Lungi dal mischiare i campi di studio di ciascun professionista, ritengo estremamente utile da psicologa-psicoterapeuta (neurotipica) conoscere i movimenti socio-culturali in essere in tal senso per rendere più accurato l’eventuale intervento clinico (intervento che tenga conto sia delle caratteristiche non storiche di neurotipicità o di neurodivergenza, sia della storia di vita di ciascun individuo).
Si dovrà quindi conoscere bene il paradigma medico e i criteri diagnostici che portano a riconoscere una persona neurodivergente da una che non lo è, senza tuttavia fermarsi a questo. Sarà infatti importante che l’individuo con neurodivergenza significhi i propri modi di essere nel Mondo, partendo dal presupposto che tali modalità sono frutto di una diversità e non di un deficit.
Il processo diagnostico spesso rischia, al contrario, di ricorrere ad un linguaggio fatto di parole quali “compromissione”, “problemi” e “deficit”, rimarcando una narrazione di per sé riduttiva.
I criteri diagnostici, inoltre, hanno presupposti biomedici e risultano formulati entro parametri perlopiù iscritti nel modello medico da specialisti, che si pongono nella posizione di osservatori dell’esperienza neurodivergente altrui – descrizione “dal di fuori”. Quell’esperienza viceversa potrebbe essere descritta ove possibile da chi la esperisce in prima persona – punto di vista “dall’interno” – in modo più preciso ed efficace, in quanto maggiormente condivisibile e riconoscibile da chi vive esperienze simili.
Se è vero ciò, è altrettanto vero che la diagnosi risulta di estrema importanza per una serie di fattori che approfondiamo di seguito.
Identificazione tardiva e strategie compensatorie
Come detto in precedenza, in particolare in casi di neurodivergenza espressa in lievi differenze da quanto ritenuto tipico, si può verificare sia un mancato riconoscimento/erronea interpretazione, sia un’identificazione tardiva delle stesse da parte degli altri.
Ad esempio, Lehnhardt e autori (Lehnhardt et al., 2013) documentano un frequente delay nelle diagnosi di Asperger che potrebbe essere ascrivibile anche a specifiche strategie compensatorie messe in atto nel tentativo di coprire modalità di comunicazione sociale percepite come “atipiche”. Queste strategie compensatorie dipendono da una serie di fattori quali i contesti abitati e le esperienze che l’individuo si trova a vivere e possono avere, secondo gli autori, successo entro certi limiti, per poi risultare, in specifiche situazioni/momenti, non più efficaci.
Tali modalità di adattarsi alle richieste dell’ambiente sociale (richieste stabilite perlopiù da persone con sviluppo tipico) possono portare le persone autistiche a non sentirsi bene e a vivere momenti di fatica emotiva, con manifestazioni psicopatologiche secondarie caratterizzate da diversi gradi di visibilità (per le quali viene richiesto o meno supporto terapeutico).
Gli autori documentano un’alta percentuale di persone autistiche che sviluppano psicopatologie quali la depressione o i disturbi d’ansia. I disturbi depressivi rappresentano, secondo un ulteriore studio osservazionale effettuato con pazienti con diagnosi tardiva di Disturbo di Asperger (Hofvander et al., 2009), la patologia psichiatrica più frequente presente negli stessi.
Sempre secondo Lehnhardt e autori, qualora poi ci sia una ricerca da parte di questi soggetti di un aiuto sanitario, la manifestazione sintomatologica di tali disturbi secondari può camuffare l’esperienza neurodivergente, rendendo più complesse sia l’identificazione che la costruzione di direzioni terapeutiche su misura.
In seguito ad una diagnosi, le difficoltà autentiche sperimentate possono risultare più comprensibili sia da chi le esperisce – “dall’interno”, sia da chi le osserva – “dal di fuori”. Parallelamente ad una maggiore consapevolezza delle personali caratteristiche cambia la narrazione che attuo di me e del Mondo che mi circonda, cambia l’attribuzione di significato con la quale vedo le mie scelte e le aspettative che gli altri hanno in tal senso e si modifica di volta in volta la progettualità che mi immagino (per esempio, costruzione, alla luce delle proprie caratteristiche, di direzioni lavorative e familiari maggiormente sostenibili e gratificanti).
Ricevere una diagnosi garantisce, oltre a specifici diritti e servizi nel quadro giuridico attuale, la possibilità di prevenire/ridurre sia gli effetti di alcune strategie compensatorie/di adattamento sia i timori stessi che li generano, e anche la possibilità di un inserimento in una comunità di riferimento, alla quale poter appartenere sentendosi identificata/o/_ e con la quale poter condividere determinate esperienze, non sentendosi più “sbagliate/i/_” e “sole/i/_”.
Nondimeno la diagnosi aiuta, nel caso venga richiesto supporto specialistico, il clinico stesso a individuare una direzione terapeutica, che accompagni nella comprensione della sofferenza e dell’eventuale sintomatologia secondaria emersa.
Articolo a cura della Dott.ssa Lucrezia Olivier
La dott.ssa Olivier Lucrezia, Psicologa-